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Una Storia Di Passione, Impegno E Dedizione

Le prime tracce dell’azienda risalgono già ai primi del Novecento e le troviamo sui libri dedicati al mondo dei cappellai di Monza ("L'eredità dei cappellai" con il nome di cappellificio G. Solzi), come fornitore del cappellificio Intra.

All'epoca probabilmente l'azienda produceva solo cappelli per uomo, anche perché il solo settore era in grado di sostenere la struttura che era arrivata a contare fino a circa 25 addetti. Non a caso Monza era la città dei cappelli di feltro di lana da uomo e produceva per il mondo intero.


La nostra cappelleria
Locali cappelleria a Villasanta
L'azienda di Monza Brianza

Negli anni poi la società ha assunto il nome prima di IMOR , poi di Solzi e Canesi. Con il passare degli anni e con il calare del consumo del cappello maschile, si è trasformata anche in produttrice di ombrelli ma, purtroppo, complice la crisi e l’avanzata età dei proprietari, la produzione non ha avuto grande successo.

 

L'evoluzione della società si è avuta circa trent’anni fa, quando la vecchia guardia ha lasciato il posto alla nuova. Giulio Banfi e Maria Luigia Farina hanno rilevato l'oramai stremata società, ridandogli il nome IMOR. In seguito, i figli Paolo ed Elena hanno portato avanti con grinta l'idea di un lavoro romantico legato al passato, ma con gli occhi ben fissi sul futuro. Ora, dopo anni vissuti in Monza, quasi sempre nella stessa sede di via Visconti, l’azienda si è trasferita a Villasanta, dove è sorta una struttura moderna in cui l'attenzione per il pianeta ci ha portato alla creazione di un ambiente del tutto sostenibile. IMOR è infatti un’azienda a " zero emissioni", producendo cioè, oltre ai cappelli, anche più o meno tutta l'energia di cui ha bisogno.

 

I cappelli, gli ombrelli, le sciarpe... sono nel DNA della famiglia Banfi che da sempre li produce con grande cura. Perché chi li indossa si senta un po’ speciale, come - del resto - chi li produce.

Il cappello: un simbolo che attraversa la storia

Il cappello nella storia nasce come indumento a protezione della testa contro le intemperie, detto appunto copricapo (basti pensare alla cuffia di pelliccia dell'uomo di Similaun), per poi diventare strumento di identificazione sociale come il tricorno  nel Settecento, il cilindro  nell'Ottocento - non certo cappelli del popolo - o un saturno per un prete. Oggi il cappello è invece sinonimo di personalità, non c'è musicista o personaggio dello spettacolo che non sfoggi un baseball  da rapper, una cuffia oversize  o un feltro  tipo Trilby o Pork pie.

 

Ma non dimentichiamoci che ieri come oggi la sua prima funzione - sia esso un basco, un cuculo, un berretto  o una bombetta - è sempre quella di proteggere una delle parti più delicate del nostro corpo ed è per questo che deve essere scelto con la massima cura e funzionale alle nostre esigenze e fisionomie.

 

Impermeabile come un feltro di qualità o una cloche di nylon, caldo come una zarina di volpe o una cuffia di pura lana, fresco come un panama  o una paglietta  naturale, identificativo come una feluca goliardica  o gratificante come un tocco  a laurea ottenuta... c'è sempre un cappello per ogni tua esigenza. Meglio ancora se il cappello è IMOR.

 

Il cappello come strumento di lettura sociale

Siamo in un momento economico, ma soprattutto sociale, molto particolare. Tutto ciò che ci circonda sembra essere indispensabilmente portato all'apparire: la moda, i social network, la televisione e tutti i mass media in generale, sembrano volerci dire "Se non ci sei, se non appari... non esisti". E quale indumento del nostro armadio, quando indossato, è più in vista del nostro cappello? Ed è così che la moda lo rispolvera, lo tira giù dal ripiano più alto dei nostri armadi e ce lo rificca in testa. Non importa se qualche volta è un po' eccentrico, anzi… "Sei più in vista, ti si nota di più!".

 

Non ci rendiamo più conto di come sia il cappello a indossarci, a portarci in giro, e non noi a indossare lui. Ma per forza, chi vedi già da lontano? Me o il mio cappello? Se dobbiamo solo apparire e non essere ok, va bene! Ma il cappello oltre che pura estetica è anche un'altra cosa!

Anche nella storia il cappello è strumento di identificazione sociale (pensiamo al cilindro per la classe più abbiente nell'Ottocento, simbolo di superiorità rispetto alla massa) oltre a rappresentare uno strumento di contestazione (basti pensare al goliardo dei movimenti studenteschi), un modo per esprimere il desiderio di non voler appartenere alla realtà contadina, perché rozza e ignorante, ma nemmeno a quella che, fino a quel momento storico, era ritenuta la classe istruita e cioè nobiliare.

 

"Io sono io con il mio nuovo modo di essere e mi cambio e cambio. Esco dagli schemi sociali perché ho un'idea di qualcosa di diverso da ciò che mi circonda. Forse non so ancora definirmi ma tento qualcosa di nuovo e di personale... mi cambio anche il cappello!".

E così il cappello diventa una "nuova strada" e quindi una nuova definizione di sé!

 

Ecco, oggi dovremmo ripartire da qui.

 

Non abbiamo più la possibilità di lasciarci trasportare da tutto il pessimismo e l'effimero che ci circonda. Dobbiamo re-inventarci. Dobbiamo calzare un nuovo cappello. Un copricapo che ci ridisegni, oltre che esteticamente, anche psicologicamente.

 

In questo momento di vertigine sociale, sul ciglio di un baratro sia morale che economico, dobbiamo rimboccarci le maniche per cercare gli strumenti in grado di salvare ciò che di buono fin qui è stato fatto. Ma dalla vecchia strada siamo anche costretti a uscire se non vogliamo finire in fondo al burrone che ci aspetta se non ci diamo una svegliata... se non ci cambiamo cappello!

 

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